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Il coraggio di investire sull'azienda

di Marco Alfieri e Paolo Bricco

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20 settembre 2009

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In mezzo a tante storie complicate, naturalmente, ci sono imprenditori che hanno fatto la cosa giusta. Come Paolo Dalla Corte. La sua famiglia ha incassato, nel 2001, 900mila euro dalla cessione del 30% di una azienda di Bologna. «No - racconta - , non abbiamo ascoltato il bancario che ci consigliava di comperare Bot. Due anni dopo, abbiamo ricominciato da zero con una nuova società, in cui abbiamo investito tutto». Oggi la Dalla Corte, che produce macchine per il caffè espresso nei bar, si trova nel quartiere milanese della Bovisa. Ha una ventina di dipendenti e fattura 5 milioni di euro, l'85% del quale all'estero. In Corea, una macchina su tre per il caffè è marchiata Dalla Corte. «Sul nuovo modello in uscita - dice l'imprenditore - abbiamo impegnato 450mila euro». Certo, Paolo e sua sorella Elsa hanno comportamenti ultramorigerati, che mettono davanti a tutto il destino dell'azienda: «Nei primi 5 anni della nuova attività abbiamo usato i risparmi di famiglia per vivere. Solo nel 2008, ci siamo dati il primo stipendio. Io? Guadagno 2.500 euro al mese…».

Forse è un caso limite quello dei Dalla Corte, ma è indubbio che resta un salto culturale quello che attende un pezzo di manifattura italiana. Un ultimo gradino dopo l'abbandono delle svalutazioni competitive, l'introduzione dell'euro e il ridisegno del profilo competitivo della media impresa tricolore fatto di innovazione (anche di prodotto), qualità e creatività. La tenuta del nostro export negli anni del "mondo piatto" è lì a dimostrarci che c'è ancora posto per le nostre merci, a patto di sapersi strutturare sul lato del capitale proprio. Alcuni lo hanno appena fatto come la parmigiana Tecnomach, gruppo Overmach (160 milioni di fatturato 2008 per 210 dipendenti), leader nazionale nella vendita di macchine utensili ad asportazione truciolo, che l'altro giorno ha varato un consistente aumento di capitale portandolo a 32 milioni di euro. «Era giusto farlo», spiega Aldo Ghidini, il titolare 81enne ancora tonico in azienda, «per dare un segnale al mercato in un anno orribile in cui venderemo il 70% meno del 2008». L'uscita dalla crisi la si costruisce anche così. Perché non basta dare la colpa alle banche che pure tagliano il credito. Non è sufficiente trovare untori a prescindere. «La nostra scelta è piuttosto stata di non dileguarci, non lasciare alle banche tutti gli indebitamenti».
Insomma impresa & credito, l'eterno dilemma che scuote la vasta platea dell'italica famiglia-impresa. E che letto attraverso il prisma di una maggior capitalizzazione assume contorni meno di maniera e più pregnanti. A confermarlo è un signore come il presidente della Popolare di Vicenza Gianni Zonin, che tutti i giorni incarna il dualismo indossando la doppia giacca di banchiere e imprenditore. Nel Nord-Est come in Sicilia, dove ha vigneti e sportelli. «Un'azienda - dice Zonin - chiede alle banche di erogare soldi non solo in base a statistiche ma misurando il merito di credito anche con il cuore. Cioè tenendo conto della storia e della reputazione. Va bene i numeri, ma bisogna essere più vicini al cliente e capire se l'azienda è sana ma sta passando un momento difficile, e in questo caso si ha il dovere di aiutarla. O se è decotta e, allora, meglio lasciar perdere. Dal canto loro - continua lo Zonin in versione banchiere - molte imprese devono patrimonializzarsi di più perché gioverebbe anzitutto a loro nel rapporto con le banche. Se non credi tu nella tua azienda, mettendoci più capitale, non si capisce perché dovrebbe crederci un istituto di credito». E questo sta succedendo? «Pian pianino, ma non troppo…».

Dunque se è giusto pressare le banche perché nessuno può pensare di far mancare i soldi al circuito produttivo, tuttavia il debito delle imprese deve ripensarsi, è il succo dello Zonin pensiero. In fondo, anche nei tanto bistrattati criteri di Basilea 2 si possono scovare lati virtuosi per le stesse Pmi, in termini di controgaranzia fidi e sul rating. La sottopatrimonializzazione delle imprese italiane rende invece complicato proprio il rapporto con chi deve decidere o meno una linea di credito. Stando ad una simulazione compiuta dal Sole 24 Ore, utilizzando criteri equivalenti a quelli di Basilea 2, l'impresa media italiana classica oggi possiede un merito di credito esprimibile in BB, ha mezzi propri pari al 10% del capitale proprio e una leva finanziaria dell'80 per cento. Per migliorare il proprio merito, salendo all'investment grade del BBB-, sarebbe sufficiente portare i mezzi propri ad almeno il 25% del capitale investito e costruire una leva oscillante fra il 50 e il 60 per cento. Per l'azienda, questo vorrebbe dire più soldi a un costo inferiore. A condizione però che i mezzi propri raddoppino. E mezzi propri vogliono dire capitale sociale e riserve.

Il che significa che fra il debito bancario, di cui l'impresa sottopatrimonializzata ha bisogno come una droga, e il capitale, che se fosse più robusto in un circuito virtuoso consentirebbe all'azienda di avere più soldi dalle banche a minor prezzo, c'è davvero la terra di nessuno. Che, oggi, andrebbe riempita: private equity, mezzanini, bond di distretto sono alcune delle formule che potrebbero essere utilizzate. «Di certo - riflette Patrizio Bianchi, che è anche nel Cda della Banca Popolare di Roma - bisogna pensare a intermediari di investimento, magari generati dalle banche, ma che restino ben distinti». E, in tempi segnati dal fallimento del modello anglosassone alla Lehman Brothers, torna di attualità un nome dal grande potere evocativo: Banca Commerciale Italiana, la mitica Comit. «Oggi tutto è cambiato - continua Bianchi - ma la grande esperienza di una banca che appoggia e favorisce i percorsi di crescita industriale può tornare utile».
  CONTINUA ...»

20 settembre 2009
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